Non c’è lavoro o non si trovano i lavoratori ? Analisi di una situazione al limite del patetico.

Come ogni anno inizia la “stagione” e con essa il dibattito sulla mancanza di lavoratori.

Non passa giorno senza un articolo dedicato a questo imprenditore che inveisce contro il reddito di cittadinanza o a quello chef che accusa i giovani di scarsa propensione  al lavoro.

Ma come stanno davvero le cose?

Al netto di posizioni ideologiche prive di logica, bisogna analizzare la questione per capire che non tutto può essere ricondotto ad un duello dicotomico tra buoni e cattivi. Tra imprenditori illuminati o criminali e tra lavoratori schiavizzati o parassiti.

IL MERCATO.

E’ inutile dire che le dinamiche del mercato incidono e di molto. Davanti ad un’esplosione del settore della ristorazione (+30% di attività in un decennio) e della ricettività (+50% di extra-alberghiero nello stesso arco temporale) non c’è stata una proporzionale crescita delle risorse umane da integrare nei relativi ambiti. Il digitale inoltre ha spostato molte risorse, su nuove mansioni, non riconosciute, difficili da far emergere, perché sottacciono in un mercato nero, difficile da individuare.

I SETTORI.

Per anni si è pensato che non servisse formare il personale di sala, receptionist, i vari aiuti cuoco, bancone e via dicendo. Fornendo un servizio spesso scadente, con salari approssimativi, in un contesto poco gratificante. Da qualche anno i settori di riferimento hanno conosciuto una grande crescita, quantitativa e qualitativa, e perciò oltre che a mancare numericamente il personale, manca soprattutto quello formato, capace ed appassionato al settore. E questo dipende anche dal fortissimo turnover, dalla stagionalità dell’impiego e dalla precarietà dell’impiego.

LE PERSONE.

No, non tutti gli imprenditori pagano una miseria. No, non tutti gli imprenditori pagano bene. Come non tutti i giovani sono sfaticati o mantenuti dal reddito di cittadinanza. Andando al di la di questa eterna conflittualità sociale, sono in corso dei cambiamenti epocali, tra cui la great resignation (rassegnazioni di massa) e la nomadizzazione del lavoro.

Con la prima si intende quel distacco dal mondo del lavoro che in milioni di persone, stanno attuando tramite dimissioni volontarie, in cerca di un lavoro meno impegnativo e meglio pagato. Naturale conseguenza di dinamiche neo liberiste, con le quali, per anni,  molte imprese hanno pianto miseria accumulando ricchezza, erodendo diritti, aumentando l’impatto delle produzioni, abbattendo costi, alla faccia di quelle più piccole che sono state schiacciate dai cambiamenti e soffocate da costi e tassazioni. Una presa di coscienza che porta il lavoratore a scorgere in ambiti più individualistici delle opportunità. Tra queste il ritorno all’agricoltura, in una chiave più moderna e digitale.

Con la seconda, si intende una serie impressionante di lavoratori e di lavori, che iniziano a non avere un contesto preciso, ne in termini di luoghi fisici, ne in termini di condizioni di lavoro. Viaggiano, sono collegati al web, lavorano da remoto, per lo più in ambito digitale o digitalizzando la loro attività. Basti pensare a personal trainer, influencer, scrittori e giornalisti, e si potrebbe andare avanti per ore.

IN SINTESI

Non è una questione di reddito di cittadinanza, il problema del personale c’era anche prima dell’introduzione della misura. Il reddito di cittadinanza di fatto è un credito, spendibile e non cumulabile, che non genera perciò ne risparmi ne ricchezze. Inoltre è sospendibile per il periodo in cui si lavora e riattivabile quando si rimane disoccupati. Perciò sarebbe folle non avere botte piena e moglie ubriaca.

Si, in molti lavoratori hanno più o meno legittimamente alzato le pretese in termini di salario e di tempo libero. In alcuni casi trattasi di poca dedizione, in altri, molto più spesso, di necessità di trovare risposte ad una precarizzazione schiacciante, il cui modello non lascia scampo: il più possibile e subito, e non c’è che da comprendere.

Dall’altro canto il frastuono mediatico alzato dalle critiche, da noti imprenditori e rinomati chef, si scontra con una realtà molto diffusa. Contratti part time di 20-30 ore dichiarate, 40-45 lavorate, e la differenza, se viene pagata, viene retribuita in nero, a meno di 4 euro/ora. Mansioni spesso svolte 7 su 7, senza giorno di riposo. Si c’è anche questo e c’è di più.

INFINE.

Combattere la precarietà, alleggerire la fiscalità alle imprese, regolamentare i nuovi lavori e rendere più efficiente l’incontro tra domanda e offerta del mercato del lavoro, abbracciare una cultura d’impresa manageriale e non di stampo familiare, proporre visioni, dare prospettive, formare e specializzare le risorse umane, è il primo passo da compiere.

Decisamente più sensato delle polemiche sterili ed inutili di questo chef o di quell’imprenditore. Decisamente più utile del piangersi addosso o del vivere alle spalle dei propri genitori.

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